Caro lettore, uno degli episodi meno conosciuti della vita di Francesco Petrarca ci viene raccontato nientemeno che da Ugo Foscolo, nel Saggio sopra la poesia del Petrarca. Il saggio ha origine - come gli altri saggi petrarcheschi scritti dal Foscolo durante il periodo da esule in Inghilterra - da una serie di conversazioni tenute sull'argomento, tra la fine del 1818 e gli inizi del 1819, in casa di sir Henry Russell. A conclusione di questo lavoro, il Foscolo inserisce la traduzione di una delle lettere scritte dal Petrarca al cardinale Giovanni Colonna durante un soggiorno a Napoli nel 1343. Il 25 novembre, giorno di Santa Caterina, sulla città si scatena uno tsunami. Petrarca lo racconta in presa diretta, scrivendo subito, ancora sotto shock, a Giovanni Colonna, narrandone precisamente i fatti: «Nei giorni antecedenti l'evento si alternarono presagi e segni negativi: temporali si succedettero a temporali; voci di profezie coinvolsero in primis delle donne. A poco a poco le donne si trasformarono in una folla e cominciarono a far ressa davanti alle porte delle chiese per entrare». Il Petrarca resta impressionato dalla scena, è molto inquieto; alloggia nel convento dei frati minori di San Lorenzo. Nonostante il cielo in un primo momento appare sereno, resta a guardare dalla finestra per cogliere qualche segno; ma è tardi e se ne va a letto. Si è appena addormentato, quando sente delle voci e dei rumori, sente tremare le finestre e le mura della stanza. Il lume da notte, che per abitudine tiene sempre acceso accanto a lui, si spegne. Scende dal letto in fretta e furia, l'unica luce è quella dei lampi. I frati pregano, cercano di farsi forza l'un l'altro; arriva il priore con altri frati. Hanno delle fiaccole e finalmente c'è un po' di luce. Le preghiere si fanno più forti, si afferrano reliquie di santi, croci; tutti scappano verso la chiesa. All'improvviso arriva dal mare un boato infernale. Il giorno dopo lo scenario è da incubo: dalla strada crescono le urla, vengono dal porto. Il Petrarca monta a cavallo e galoppa verso il molo per vedere cosa sia successo. La violenza del maremoto è stata capace di trascinare con sé qualunque cosa: uomini, animali, edifici. Le stesse strutture del porto appaiono gravemente danneggiate, trascinate via con inaudita violenza; tutt'intorno alla spiaggia un paesaggio di desolazione e di paura. La popolazione corre in massa al porto, ci sono tutti. Il Petrarca racconta di come più di mille cavalieri siano giunti “per le esequie della patria”. Ma ecco che il terreno, eroso dall’acqua del mare, comincia a franare. Molti cadono, gridano, un fuggi fuggi generale verso l’alto. Intanto le onde non si arrestano - si formano tra Capri e Napoli - e il mare assume un colore innaturale: un bianco “dell'orrido candore della schiuma”. Mentre tutto questo succede, l’attenzione si sposta verso un altro settore: arriva la giovane regina, la sedicenne Giovanna I d'Angiò, accompagnata dal suo seguito. L’ultima immagine di questa tragedia riguarda le navi: tutte quelle che erano in rada sono state spazzate via, tranne una, che nonostante sia quasi a pezzi non affonda, e sulla quale resistono circa quattrocento galeotti. Tutto d'un tratto il cielo si apre e la tempesta si placa; anche i galeotti ce l’hanno fatta. «Che destino - osserva il Petrarca -, ce la fanno i peggiori; tutto questo è l’infinità delle vie del Signore. Perché sia dato comprendere che nei pericoli della morte più sicuri sono coloro che più a vile hanno la vita».
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